Benedetta Galli

Auld Lang Syne

La giornalista di El Paìs sta guardando un video su Twitter. Se ne sta rigida sulla sedia, le gambe inclinate verso l’uscita, la mano che stringe il cappotto, pronta a scappare via non appena avremo finito. Peccato che ancora dobbiamo iniziare.
Il francese parla al telefono delle primarie americane, la sua voce rimbomba nella sala quasi vuota. Si sente tutto quello che dice, mi stupisco che non se ne preoccupi affatto, ma in fondo ci saranno sei persone in tutto, una delle quali sono io – e io sono solo uno sfigato che lavora per un oscuro ente designato da un acronimo incomprensibile.
Lenarčič e Kyriakides mi fanno segno di avvicinarmi.
“Possiamo cominciare o vuole aspettare altri dieci minuti?”
Respira Fred, è solo una domanda, non è assolutamente un modo passivo-aggressivo per farti notare che l’ECDC ha chiesto a due impegnatissimi commissari europei di sprecare il loro tempo per tenere una conferenza stampa in una sala deserta.
Chiamo Emma.
“Sono le quattro e mezza, perché non c’è nessuno? Non hanno fatto un comunicato?”
“La stampa è tutta fuori dal Parlamento.”
“Perché?”
“Come perché? Stanno votando per Brexit.
”Cazzo! Cazzo, Brexit, perché non ci abbiamo pensato? E certo che non verrà nessuno! Proprio ora, mentre l’Europa si sgretola, noi ce ne stiamo qui come dei cretini a dire che dovremmo metterci d’accordo per comprare mascherine e respiratori, solo perché in Cina c’è l’ennesima epidemia di cui tra un mese non parlerà più nessuno.
Ormai, comunque, è inutile aspettare. Faccio un cenno a Kyriakides e lei accende il microfono.
“Buon pomeriggio, signore e signori…”
Ci sono palle di polvere e capelli che volteggiano leggiadre sul pavimento.
“…assicurare il coordinamento delle misure per prevenire la diffusione del virus…”
Forse neanche gli addetti alle pulizie sapevano che avremmo usato la sala.
“Al momento abbiamo otto casi confermati in Europa, quattro in Francia e quattro in Germania…”
Ma Greta Thunberg come fa?
“…entrambi i Paesi hanno preso tutte le misure necessarie per contenere il virus…”
E quindi, se le hanno prese, perché dovrei continuare ad ascoltarti? Sembra dire l’italiano con lo sguardo. Dov’è la storia?
“La situazione, come sapete, è…”
Un casino, ti prego Stella Kyriakides, di’ che è un casino enorme e non ci stiamo capendo nulla perché ci mancano il tempo e i dati.
“…complessa e in continua evoluzione.”
E se noi non ci capiamo niente, noi che siamo il Centro Europeo per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie, com’è possibile che tu, allampanato giornalista olandese, abbia già archiviato questo nuovo coronavirus tra le questioni irrilevanti e ti sia messo a giocare a Candy Crush?
“…al momento non c’è nessuna cura specifica, né un vaccino…”
La spagnola se ne va. L’ha già sentita questa storia, d’altra parte: dicevano le stesse cose della SARS, era scoppiato il panico, e ora chi se ne ricorda più? Io me ne ricordo, in realtà: mia sorella in lacrime perché le avevo detto che dovevamo prepararci a ogni eventualità, e quindi decidere con quali nonni andare a vivere se fossero morti i nostri genitori, autorizzare la donazione dei nostri organi in caso fossimo morti noi stessi – cose così, norme di buon senso. Mia madre ci mise tutto il giorno per convincerla a uscire da sotto il letto e io finii in punizione per una settimana. Poi, via via che cresci, ogni nuova minaccia ti fa sempre meno paura, perché ormai hai imparato la trafila: c’è l’allarme, ci sono i titoli apocalittici sui quotidiani, i talk show, poi i meme, poi il silenzio. Da qualche parte muore qualcuno, ma non siamo mai noi.
“…la cooperazione a livello globale è di estrema importanza…”
Una piccola eredità, però, la SARS ce l’ha lasciata: nel 2005 l’Unione Europea si è dotata di un organo per il monitoraggio delle malattie, l’ECDC, dove oggi lavoro io, in piena continuità con le mie paranoie preadolescenziali. In realtà non abbiamo chissà quali poteri: possiamo consigliare alla Commissione di consigliare agli Stati di darsi una mossa. Ed è quello che la Commissione sta facendo oggi – o per lo meno, questi due poveracci che hanno avuto la pazienza di ascoltarci e organizzare la conferenza stampa.
“Grazie per l’attenzione.”
I tre giornalisti rimasti spariscono prima che Lenarčič possa chiedere se ci sono domande.
“Forse abbiamo scelto il giorno sbagliato” mi dice Kyriakides. “Chiamerò i giornali per assicurarmi che ci diano copertura, almeno quei quattro o cinque che si sono presentati. Gliel’ho già detto, ma ci tengo a ripeterlo: stiamo prendendo la questione sul serio.”
Le sorrido e annuisco: che altro vuoi fare di fronte a queste parole sobrie, calme, affidabili? Le rispondo certo, lo sappiamo, il vostro supporto è fondamentale e spero non mi si legga in faccia il terrore, perché me ne vergogno. Il nostro lavoro è preoccuparci in anticipo, sempre, di ogni cosa, anche di una manciata di casi in un continente con settecento milioni di abitanti; e pian piano anche preoccuparsi diventa un’abitudine sonnacchiosa, come tutto il resto. Eppure, quando abbiamo completato l’analisi dei rischi, io mi sono sentito di nuovo come un dodicenne di fronte alla sua prima catastrofe annunciata. Anche se ancora ne sappiamo così poco, o forse proprio per questo…
Mi devo dare una calmata. Guardo il cellulare: Maurice mi ha mandato le foto della sua dissertazione di dottorato, che io mi sono perso per organizzare questa conferenza stampa del cazzo, a cui non si è presentato nessuno. A Parigi, invece, c’erano tutti: Tom, Jaime, Hannah e perfino Giulia – lei mi ha anche mandato un vocale:
“Io sono tornata apposta da New York e tu non vuoi muovere il culo da Stoccolma?”
Sento la voce di Jaime alle sue spalle:
“Il principino è a Bruxelles in questi giorni.”
“A Bruxelles, addirittura? Potevi venire in treno, Fred! In treno! Sei scandaloso!”
Lo so che hanno documentato ogni dettaglio per farmi sentire in colpa e stuzzicare la mia nostalgia: da quando mi sono laureato non sono più tornato a Parigi – la prossima volta, la prossima volta, lo prometto sempre e poi mi lascio prendere da altre cose, voi organizzatevi pure, io forse devo andare a Tokyo per lavoro, deciderò all’ultimo momento, e poi a Tokyo non ci vado mai, ma nel frattempo i prezzi dei biglietti sono saliti troppo, e così rimando ancora.
Questa però è l’ultima volta, mi dico guardando la sala vuota: a fine marzo ci vado a Parigi, cascasse il mondo, c’è l’inaugurazione della nuova casa di Maurice, il compleanno di Hannah – e Hannah secondo me mi voleva baciare, quando è passata da Stoccolma a settembre, ma io da bravo codardo ho fatto il finto tonto come al solito. Non faccio in tempo a uscire in strada che ho già prenotato il volo, mando lo screenshot sul gruppo: Stavolta è tutto vero.
Raggiungo Emma in un pub affollato vicino a Berlaymont. Lei ruba un sorso di birra dal mio bicchiere e mi chiede della conferenza stampa:
“Cinque persone? Merda, speravo almeno una ventina… Beh, comunque alla seduta plenaria per Brexit è successa una cosa assurda. Guarda.”
Mi mostra il telefono, carica un video e alza il volume al massimo. Sullo schermo vedo i parlamentari alzarsi in piedi e prendersi per mano. Sopra ai completi, alle cravatte e ai maglioncini portano sciarpe con la bandiera europea e quella britannica. E cantano: prima sono in pochi, sembrano un po’ impacciati, poi si aggiungono altre voci, i corpi cominciano a ondeggiare, l’imbarazzo si scioglie. Non riesco a capire quale sia la canzone, le voci nel locale sono troppo forti, allora avvicino l’orecchio al cellulare: è Auld Lang Syne, il congedo dai vecchi amici. Emma sorride.
“Hai visto?” dice “Ci credo che la stampa era tutta lì. È un momento storico, guardali, guarda come sono emozionati!”
Emma ha ragione: certo, io lo so che sono solo un branco di politici mediocri e poco fotogenici, e so che gli ultimi anni sono stati segnati da beghe infinite, da cavilli e da ripicche, altro che amicizia. Eppure nella goffaggine di queste persone c’è una sorta di solennità dimessa, e quando si abbracciano la loro commozione sembra sincera: mi vergogno un po’ a dirlo, ma questa scena è toccante anche per me. È triste pensare che iniziamo a perdere pezzi, ma così è: forse per tenerci insieme ci voleva la paura della catastrofe, o il suo ricordo.
Un momento storico, davvero. Sento vibrare il cellulare nella tasca: Hannah mi ha mandato un sacco di faccine sorridenti. Tra due mesi sarò a Parigi.