Riccardo Meozzi

Tutto il presente

Non avevo morti recenti, fantasmi, traumi o nostalgie, e da anni vivevo lontano dal luogo dov’ero nato senza sentirne la mancanza. Pensavo però che sarei morto presto, questo sì, ma senza dramma: non riuscivo a immaginare quello specifico dolore futuro, e questo perché il lutto per me esisteva soltanto in due fotografie dimesse che non mi dicevano nulla. E se in una biblioteca nel centro di Bologna iniziai a pensare ai miei morti non era solo perché sapevo che sarei diventato come loro molto in fretta, e dunque li sentivo vicini eppure sconosciuti, ma anche perché stavo leggendo un autore che aveva fatto della comprensione delle fotografie lo specchio in cui intravedere la realtà. E allora, anche se in quelle settimane la notte camminavo in direzione dell’unica farmacia aperta, dove imploravo mi misurassero la pressione e mi dessero psicofarmaci senza prescrizione – ricordo tutti i passi per via Lame, Ugo Bassi, piazza Maggiore, e poi, come un topo, lo stazionare dentro la guardiola dove lasciavo che gli occhi del farmacista scandagliassero il mio doppiopetto, i capelli ordinati e gli occhiali rotondi –, mi feci forza e tornai a casa, nella valle in cui erano sepolti i miei morti.
Durante il viaggio in treno tremai per buona parte del tempo, come ormai mi capitava ogni giorno. E quella sera stessa, quando m’infilai nel letto della mia infanzia, sentii un corvo gracchiare fuori dalla finestra, che per i greci era chiaro presagio di sciagure e dolori. Pazienza, mi dissi, Si vede che mi tocca. A parte terrore e angoscia non lasciavo altro, cosa che in fondo, se paragonate a eredità più misere e banali, poteva pure starmi bene.
Poi non pensai più.

L’indomani, prima di entrare, mi presi del tempo e osservai il cimitero dall’esterno. Era vecchio, costruito con le pietre del greto del Tevere. Intorno solo campi dalle zolle rivoltate che esponevano vermi e steli d’erba gonfi d’umido. L’odore del fiume, che scorreva a meno di duecento metri, era sia marcio che fresco; lo trovai appropriato. Spensi la cicca, la buttai nel secchio all’ingresso ed entrai. Ero solo, e accorgendomene mi resi conto di non ricordare da che parte dovessi dirigermi. I cimiteri sono labirinti capovolti: chi vi entra sa che non dovrà sforzarsi di cercare l’uscita o temere le biforcazioni; vi si staziona con serenità e il tempo – che nel labirinto invece incalza – è scandagliato dalle date sulle lastre marmoree, quindi privo di senso. Mi feci guidare dai passi che da bambino avevo percorso mano nella mano con mio padre, il solo che vedeva in quei due morti un senso, un amore filiale che li voleva ancora vivi, e che sperava di trovare nei miei occhi la sua stessa tristezza. Invece io ero solo pieno di confusione e noia: che altro erano, quell’uomo e quella donna, se non due vecchi in ghingheri fotografati durante una giornata di festa? Solo cellulosa, i fotoni che si irradiavano lungo il nervo ottico, la camera oscura che aveva generato le loro immagini analogiche, vero spettro di un’epoca in cui non avevo vissuto.
Trovai i loculi. Erano in alto: la mensola e il vaso di fiori erano posizionati all’altezza dei miei occhi. Per leggere dovetti fare un passo indietro e stirare i muscoli del collo. Percepii il pomo d’Adamo tirarmi la pelle della gola e un lieve fastidio: schiarii la voce. Non mi venne nessuna preghiera, nessuna parola di conforto o saluto. Avrei potuto descrivere le foto o inventarne la storia, ma decisi di no. Presto sarei stato lì, in uno di quei loculi, e avrei preferito il silenzio a un monologo sulla mia assenza o sulla traccia sempre più debole del mio ricordo.

Un tramestio di ciottoli mi fece voltare. Sorrisi, e la donna alle mie spalle mi oltrepassò per chinarsi sul loculo sottostante. In mano stringeva uno straccetto, che passò lenta e decisa sulla foto del suo morto e sulla lastra, liscia e ancora risparmiata dall’umidità. Portò avanti quella pulizia per un paio di minuti, tempo che impiegai per osservare l’immagine del suo caro: dritto, ancora giovane ma con una faccia che stava iniziando a imbolsirsi, sedeva su un cavallo marrone e ne era fiero. Quasi un ussaro a riposo, in abiti civili, dotato della sobria eleganza di una giornata trascorsa in famiglia, in forte contrasto col ricordo cronachistico che, come tanti, avevo di lui. Quello era l’uomo che aveva atteso la moglie in garage per minuti, forse ore, per litigare e infine per spararle in testa. Ed era lo stesso uomo che poi, con un cadavere ai piedi, aveva puntato il fucile contro sé stesso e si era sottratto da ogni futuro. Se era morto, era solo per provare a cancellare ogni traccia e ricordo. Ma la donna che ne puliva la fotografia, che l’aveva scelta, non sembrava pensarlo; anzi, sembrava voler mantenere un’immagine pulita e fresca, svuotata da quel che era venuto prima. Ripassò lo straccetto sul volto dell’ussaro e si rialzò. Aveva il fiatone. Mi porse il panno.
«Vuole?»
«No, grazie».
Sfiatò e si portò una mano all’anca. La carezzò e cercò di raddrizzarsi.
«Sicuro? Guardi che per togliere la polvere è ottimo».
Mi voltai ma non riuscii a guardarla negli occhi. Le sorrisi ancora e risposi che no, non c’era bisogno, che era una visita saltuaria e che era qualcun altro a prendersi cura della tomba dei miei morti.
«Ah, va bene allora. Lo farei io, ma non vorrei si offendesse».
«Scusi?»
«Se le pulissi io. Le due foto, dico».
Le chiesi perché. Lei si scosse e non disse altro. La ringraziai, tentai di farmi il segno della croce e me ne andai.
Oltre il cancello, circondato dall’odore del fiume, pensai di guardarmi indietro. Mi trattenni, ma la verità è che fu un corvo a impedirmi di girare la testa. Planò su una zolla, si guardò intorno e ficcò il suo becco nero nella terra. Ne estrasse un verme, lo strinse e lo ingoiò. Poi riprese il volo. Il vento, che fino a quel momento non s’era fatto sentire, cambiò direzione; l’odore di marcio e fresco scomparve. Così, per la prima volta da giorni, io smisi di tremare mentre le due fotografie, che pure avevo guardato a lungo, ripresero ad affondare sul fondo delle mie pupille.