Clelia Attanasio

La voce

Da quando sei morto la città si assomiglia con tutto: è una fotografia di se stessa. Vorrei avere una finestra talmente grande da potermi muovere tra i vicoli, approdare in piazza del Plebiscito. Lì mi benderei di nuovo gli occhi come facevo da ragazza – come mi raccomandavi sempre di fare – e la attraverserei tutta con le mani tese in avanti, per vedere se riesco a raggiungere il centro esatto tra le due statue. Ma il gioco è solo un trucco: non si può raggiungere un centro esatto che sta tra i due cavalli ma è spostato rispetto al punto centrale del Palazzo Reale. Si corre il rischio di non ritrovarsi, in questi giochi geometrici: il centro esatto delle cose è solo un’illusione e il buio della benda è una distrazione. Bisogna stare attenti a scappare via appena possibile, una volta capito il trucco: non si può combattere con la natura delle cose, nemmeno dei giochi.
Perciò non apro la finestra. È inverno, è primo mattino, filtra poca luce: la città è zitta, non esiste.

Le strade strette e a volte sconnesse, l’odore della pizza e del caffè che si mescolano e salgono in alto, imponendo di alzare lo sguardo verso i panni stesi tra i palazzi dei quartieri, niente avrebbero da raccontare se alla città si imponesse un arroccato silenzio. Queste strade senza rumore non esistono, scrivesti: prendesti lo scontrino del bar e tracciasti questa frase con la tua penna, firmasti addirittura: ero scesa dalla corriera solo un’ora prima per la prima volta, forse pensavi che lo avrei scordato. Mi ero trasferita da te, e quella storia scritta sullo scontrino di un bar non l’ho mai dimenticata. Non ti avevo mai visto prima e nemmeno avevo mai visto la città, venivo dalla campagna. C’eravamo sempre e solo scritti lettere, non avevo mai sentito un tuo verso quando mi scrivesti: Sposami, e io scrissi: Sì. Arrivai in città con la non curanza degli ingenui, ma ebbi la fortuna dei saggi: ad aspettarmi alla stazione di piazza Garibaldi, schiacciato da un subisso di gente, c’eri tu, e sapevo che quella sarebbe stata la nostra ultima passeggiata. Me lo avevi annunciato nell’ultima lettera che mi inviasti, pochi giorni prima della partenza: Amore mio, ho un segreto che devo raccontarti ma tu devi fare quello che fanno solo i santi: devi fidarti.

Osservo piazza del Gesù che si illumina di luce arancione, i bar che piano piano alzano le saracinesche e portano fuori i tavolini, i camerieri che aiutano i fornitori a scaricare i cornetti freschi, i primi studenti e qualche impiegato in netto anticipo. Penso: che muoio vorrei che qualcuno mi mettesse nelle orecchie il rumore della città alle undici del mattino.

Sono stata una giovane donna qui, lo sono diventata. Quanto tempo ho speso nei Quartieri, ad ascoltare le vasciaiole parlare da un basso all’altro. E quanto mi ci è voluto per imparare a comprenderne la lingua: una lingua di parole, ma anche di gesti, simboli che io non intuivo. Quando tornavo a casa tu eri circondato da libri, chino su una scrivania in legno scurissimo. Prima di dormire, mi guardavi con gli occhi un po’ abbassati, e io capivo che volevi ti ripetessi a cantilena le nuove parole che avevo imparato la mattina durante le mie passeggiate. Io, una sorta di Shahrazad connivente, portavo te in giro per i vicoli. Avresti potuto ridere tante volte delle mie pronunce, delle mie mis-interpretazioni simboliche, ma mi hai lasciata andare al mio percorso. Sapevi bene che il simbolo è quello che si offre da sé: spingermi verso questo lo avrebbe fatti scappare, come quando ci si avvicina troppo a un gatto prima di averne guadagnato la fiducia. Le cose sono solo ciò che sono, se non le lasci avvilupparsi a te.

Infine hai avuto ragione della tua pazienza e i suoni hanno avuto un senso, addirittura negli anni mi sono azzardata a gettare simboli, per il gusto di testarne la consistenza, per riconoscermi. Una mano lanciata con fastidio, un atteggiamento delle labbra per produrre un suono di diniego, un modo di incedere particolarmente frettoloso e ondeggiante. Sentivo di interpretare il senso della città, che non è mai stata arrabbiata con nessuno, ma ha sempre buttato con violenza i suoi colori, i suoi odori e le sue canzoni contro la sua gente: li ha sommersi.

Io mi sono guadagnata la fiducia di questo posto. È una città aperta, un concerto sotto il cielo. Tu mi hai spinta sola in questo mare di strade, chiese e mercati, mi hai buttata aspettando a riva: non ti sei mai lanciato. La prima notte che passammo insieme non potetti frenare me stessa dal chiederti: Perché? Tu prendesti un foglio e tornasti a scrivere: Perché sono muto e non posso fare l’unica cosa che vorrei: parlare coi simboli di questa città, non farmi scivolare fuori da queste pareti a infrangere la mia ambizione di bellezza.

Eppure ho congetturato su queste tue parole, per tutti gli anni del nostro matrimonio e anche ora, che sono solo una vedova. Forse ti sei lasciato abitare dalla tua città invisibile, per paura o per estrema fiducia nei miei confronti: non te l’ho chiesto più, questo ha fatto la nostra complicità.

In trent’anni sei uscito di casa solo tre volte: quando sono arrivata in stazione quel primo giorno, al matrimonio e alla nascita di nostra figlia. Eppure, per quanto tu fossi convinto che il tuo mutismo t’avesse reso incapace di carpire il senso profondo delle cose – il centro esatto che sfugge di continuo –, la grammatica di questa città io l’ho appresa solo da te. La tua città invisibile, fatta di scritture e riscritture, silenzi e ascolti, era la mappa più fedele che si potesse avere, perché contava un elemento senza il quale non si può essere cittadini, anche se si cammina dappertutto: l’amore per il mistero, che ogni luogo conserva.

Oggi, con questo freddo, in una mattina senza particolare luce, io ancora non riesco ad aprire la finestra: questa città si è aperta troppo, il mistero. Quando scenderò le scale del palazzo, avrò chiuso il portone a doppia mandata e consegnato le chiavi a nostra figlia; quando sarò passata a salutarti al cimitero l’ultima volta, tornerò alla casa della mia infanzia, lontano da qui. Morirò in una casa afona, non ci sarà con me un registratore a raccontarmi una nostalgia che non voglio mi appartenga: ho lasciato la mia casa di gioventù senza mai guardarmi indietro, lascerò Napoli senza paura. Morire non mi spaventa.

Nostra figlia ieri mi ha chiesto: Perché te ne vai? Non ho risposto, ma a te potrei anche dirlo: Perché la vita e la morte tornano: questa città è ovunque, le cose sono solo quelle che sono finché non arriva qualcuno che ne fa delle storie. Per ogni mio ritorno, ci sarai sempre tu a mostrarmi un nuovo centro.