Vittorio Punzo

Fosca

Sedevamo l’uno di fronte all’altro di fianco al focolare. Non c’era che la luce della fiamma a illuminare una porzione della stanza. A colpirmi del suo volto non erano gli occhi in ombra bensì i lunghi solchi d’età inaspriti da quella luce. Prima di iniziare fece un sorso di latte dalla tazza che aveva fra le mani e mi guardò negli occhi.
«Tu conosci Fosca, la conosci abbastanza bene. Ero certo di aver capito molto di lei ma in verità sono sempre stato distratto. Le caratteristiche dello spirito, le micro scosse che illuminano… sono sempre stato distratto, non le ho mai notate. Ho provato l’amore, amico mio».
Immaginai i capelli neri riversati a ciocche sulla pelle bianca di Fosca. Per il resto, non immaginavo niente. Non so dire quanto io la conoscessi davvero, e non so perché lui abbia detto il contrario, ma lo lasciai parlare.
«Non penso sia possibile capire qualcun altro quando c’è di mezzo l’amore, amico mio.
«Ascolta. Meno di un mese fa una persona ci invitò alla sua festa. Un’orgia alcolica, per farla breve. Avevamo da bere e da ingoiare che sarebbe bastato per una settimana.
«Io e Fosca bevemmo, lei preferì i distillati, io altro. Eravamo sul terrazzo faccia a faccia, ebbi modo di notare la sua lentezza nell’aprire e chiudere le palpebre: mi guardava qualche istante e poi le richiudeva. Mi dava giusto pochi attimi per sentire i suoi occhi grigi che subito scomparivano dietro la pelle, e subito ne avvertivo la mancanza, poi altro tempo per vederli lentamente riapparire. Così a ogni battito».
Lorenzo passò lo sguardo dai miei occhi al fuoco e disse:
«Poi mi baciò. Mi baciava come fosse l’ultimo bacio che poteva darmi. Fu il bacio più bello che avessi mai ricevuto: umido, caldo in bocca, sulle labbra, freddo lungo la schiena. Assaporava prima il mio collo poi il labbro inferiore, poi quello superiore. Io potevo godere dei suoi occhi e della sua bocca, dei suoi baci e dei suoi sapori. Sotto il cielo buio e la luna piena di quella sera, facevamo l’amore senza farlo. Il freddo della notte invernale non lo sentivo più, sentivo solo un piacevole calore, quello del suo corpo attaccato al mio».
Si alzò e fece un giro nella stanza, in quel momento di silenzio lo guardai mentre si guardava i passi.
«Poi non lo so cosa è successo.
«I suoi baci divennero aggressivi e la sua saliva ghiacciata e suoi occhi li vedevo sempre più sgranati. Non c’erano più quei battiti ma solo uno sguardo fisso.
«Non capivo. Mi sentivo come aggredito. Aggredito da qualcuno che non conoscevo. La allontanai da me».
Lorenzo fece un sorriso.
«Era sempre Fosca, ma, ecco, non so spiegartelo. Mentre mi guardava, con la bocca fece una cosa strana, come se avesse assaporato qualcosa tirata fuori dalla mia, poi si leccò le labbra come per gustarsi il tutto. Andò in bagno, lasciandomi senza dire una parola. Non riuscivo a capire il perché, non sapevo come…».
Nella tazza di Lorenzo, in quel preciso istante, cadde una mosca. In quel mare bianco annegava. Sguazzava cercando la salvezza, muoveva le zampe. Lorenzo mi guardava le scarpe quando fece per bere. “C’è una mosca nel tuo latte” dissi, e si fermò.
«Aspettai, quanto, un quarto d’ora?» continuò. «Pensai, da stupido, che fosse solo un modo per giocare. Altri cinque minuti e andai a cercarla. Rientrai in casa muovendomi attraverso l’aria pesante e la luce bluastra, barcollavo fra le bottiglie sdraiate sul pavimento. Passai il salotto e l’ingresso, girai a destra e in fondo al corridoio stretto c’era la porta del bagno. Era come nelle case di tolleranza, stanze a destra e stanze a sinistra. Porte chiuse, rumori. In quel momento tutto si strinse, la luce tremolante si fece debole, l’aria pesante mi portò affanno, i rumori sordi un mal di testa. Fosca non rispondeva. Sfondai la porta del bagno, lei era lì, davanti alle luci abbacinanti dello specchio, si guardava e arricciava i capelli rossi attorno a un dito. Si specchiava, stupita come fosse la prima volta. Per lei era come guardare qualcosa che mai aveva visto.
«Allora successe che impiegò qualche istante a girare gli occhi verso di me. Disse delle parole una dopo l’altra come una cantilena. La sua voce… la sua voce era agghiacciante, metallica, pesante. Non ebbi la forza di capire. Era come se in quel momento parlassimo due lingue diverse. Poggiai una mano al muro e tremai. Non lo so spiegare. A mano a mano gli invitati andarono via, verso casa, credo che forse non li avevo neanche mai visti bene in faccia. Io ho passato la notte con lei in quel posto, non chiedermi perché. La amavo, ripensando a tutto quello che c’è stato ancora ora non riesco a cambiare idea. La amavo, sarà stato quello. Nel letto mi baciò, mi disse “Sono stanca”. Aveva degli occhi così belli. Un attimo dopo, cadde in un sonno profondo. Si addormentò in un attimo senza neanche guardarsi intorno e senza pensare ai gridolini provenienti dalla stanza di fianco. Si addormentò forse perché c’ero io, pensai. Ho vegliato su di lei per un’ora o forse due o forse tre.
«Non mi è chiaro il tempo ma d’un tratto, quando mi ero per un istante perso nel buio, mi infilò una mano nei pantaloni. Mi stritolò le palle, senza farmi male. Mi salì in braccio, strusciandosi come un animale selvaggio e io pensai che voleva fare l’amore. Mi guardava fisso negli occhi mentre si spogliava. Quando, completamente nuda, si strusciava sul mio pantalone ruvido, mi accorsi solamente del vuoto che riempiva il petto e della paura che folgorava il cuore. I suoi occhi erano cambiati».
La mosca continuava a muovere le zampe, combatteva la morte. Lui infilò un dito nel latte fino a sollevarla dal ventre. Restò immobile sulla punta del suo dito medio.
«E sai cosa fece?» chiese Lorenzo, col dito alzato e la mosca che lentamente strofinava le zampe.
«Mise le mani intorno alla mia gola e, lentamente, con il sorriso, iniziò a strangolarmi. Con gli occhi puntati al soffitto. Godeva mentre io non riuscivo a reagire. Sentivo i polmoni pronti a esplodere. Cercavo di buttarla giù e non ce la facevo.
«Ma vuoi sapere una cosa?
«Mentre guardavo quel visetto bianco e dolce e quegli occhi che mi avevano fatto eccitare poco prima, mi sentivo pronto. Dovevo morire, ero pronto. Guardarla per tutta la notte e pensare alla luce bianca del bagno, cercare di ricordare le sue parole… guardarla e ripensarci ha scaturito in me una sorta di consapevolezza che mi ha fatto sorridere per un attimo. Forse ho sorriso, strangolato da una persona che amavo. Ne avessi avuto la possibilità, avrei sfruttato quel momento di profonda coscienza per capire qualcosa in più sul mio conto. Peccato che allentò la presa, si avvicinò al mio collo, lo morse a fondo, assaporò.
«Tu mi credi, amico mio, che era amore».
Lorenzo si zittì per dei minuti mentre io cercavo di mettere insieme le idee in una domanda che mi venne da fare nell’esatto momento in cui lui riprese a parlare.
«Ieri ho saputo che sto meglio, sono guarito».
Così disse Lorenzo. Poi mi guardò e mangiò la mosca.