Francesca Cerutti

Guardatemi tutti, stronzi

«Non prenderla male, ma secondo me dovresti pensare a un corso di dizione. Non è granché leggere la parola di Dio con quest’inflessione un po’ da  terrona».

Non era il primo commento che sentivo sul mio accento o sul mio modo di pronunciare certe parole – ma tu non sei capace di dire la gl, che ridere, prova a dire paglia, coniglio. Era però il primo a venire non da un coetaneo ma da un’adulta in oratorio, dopo che mi ero offerta di leggere un passo della Bibbia durante la messa. Me l’aveva fatto provare poco prima della funzione e si era sentita in dovere di consigliarmi di fare qualcosa per quella pronuncia. Erano i primi anni Duemila a N., piccola roccaforte leghista del Varesotto; probabilmente la signora sentiva di aver fatto un’opera di bene a consigliare a una bambina di nove anni di redimersi dall’onta di quella calata meridionale.

In ogni caso, che i commenti su di me venissero dai coetanei o da un adulto, non ero mai capace di ribattere. E poco importava quale fosse l’argomento. Avevo i capelli scuri, e scuri erano pure i peli che mi coprivano le gambe e le braccia da che avessi memoria. Impossibile non vederli, ma per mia madre non era il caso di cominciare già a sottopormi a continue cerette. E così li vedevano i miei compagni. Proprio qualche giorno prima, sempre in oratorio, una bambina bionda mi aveva suggerito di fare qualcosa per quei peli. Premurandosi di aggiungere: così sembri piena di merda. Il nesso tra i peli e la merda è tuttora oscuro, ma all’epoca non avevo chiesto spiegazioni. Non ero nemmeno riuscita ad assestarle un «fatti i cazzi tuoi» che, dato il contesto, sarebbe stato il minimo.

Per tutto il periodo delle elementari e delle medie avevo accettato la mia condizione di sfigata come si accettano le verità assolute. Chi metterebbe in discussione che l’acqua bolle a cento gradi? Nessuno. Ma, nonostante tutto, continuavo a sperare di entrare nelle grazie di quei ragazzini che ormai vedevo da tredici anni. Ho passato tutta la terza media a far copiare agli altri ogni singolo compito. E in effetti il pomeriggio il mio cellulare aveva cominciato a vibrare all’arrivo degli SMS dei compagni. Sempre per chiedere cose di scuola, per carità, ma d’altronde non si può mica pretendere che ti invitino subito alle feste o alle uscite. In ogni caso, il mio cellulare non era più del tutto muto, era un primo risultato.

Muto ci è tornato dopo gli esami finali. Ed è stato quando ha smesso di vibrare che ho detto a mia madre di aver preso una decisione.

«Ho cambiato idea, non voglio più fare il liceo qui a N. Voglio andare in quello di P.».

Ha inarcato un sopracciglio.

«Sei sicura? Ci metteresti di più ad andare a scuola la mattina e i tuoi compagni abiterebbero più lontano… potresti fare fatica a vederli nel weekend, non trovi?».

Perché invece finora ho sempre avuto tutta ‘sta vita sociale…

«Sicurissima».

Da settembre, tabula rasa. Pensavo a come sarebbe stato ricominciare da zero in un liceo in cui non conoscevo nessuno e in cui nessuno conosceva me. Non sarei più stata la sfigata o la terrona. Sarei stata Marianna e basta.

Nei cinque anni successivi il mio accento ha smesso di interessare agli altri – non ero l’unica della classe con origini del sud, e poi P. era una città più grande, la gente non si scandalizzava per una vocale più o meno aperta.

Qualche amica adesso ce l’avevo, anche se la nomea di sfigata non me l’ero del tutto scrollata di dosso. Continuavo a gestire male le discussioni e riversavo tutto il mio impegno sui libri di scuola. Lì ero imbattibile; il che, in una classe dalla competitività alle stelle, non è esattamente uno scenario ideale. Ogni tanto le compagne che più mi avevano a cuore provavano a darmi qualche consiglio: «Quella di matematica poteva evitarselo di complimentarsi proprio così davanti a tutti dopo l’interrogazione…».

«Boh, perché?».

«Adesso starai sul culo a mezza classe».

«Voleva solo dirmi una cosa carina, dai».

«Sì, ma tu ogni tanto qualcosa sbaglialo apposta, se no poi stai davvero sul culo a mezza classe».

Finché è arrivato il giorno che ci si è messa pure mia madre, convinta che valessi molto più di quanto davo a vedere e decisa a ricordarmi che all’occorrenza le unghie si potevano tirare fuori. O che quantomeno potevo evitare di pormi dieci gradini sotto il resto del mondo.

«Fammi capire: quelle due compagne che hai incrociato poco fa le vedi davvero come delle dee in terra?».

«Ma va’, chi l’ha detto?».

«Dovevi sentire con che tono tutto timoroso le hai salutate. Hai pure abbassato la testa. Pensi di valere così poco?».

La deferenza nei miei modi non la percepivo ma, a quanto pareva, era quella l’idea che davo. Perfino a mia madre, che delusione. Non deve succedere mai più. Mi sono chiusa alle spalle la porta della camera, ho fatto un respiro profondo ingoiando le lacrime. Credevo di aver fatto progressi rispetto ai tempi delle medie, ma forse erano stati davvero passettini minuscoli. Avevo diciotto anni e mi era chiaro che non era servito a granché andare in un liceo di compagni nuovi. La coda tra le gambe era rimasta la stessa di quando ne avevo nove, e mi sono sentita ribollire il sangue. Ho strappato un foglio da un blocchetto, arrivando a bucarlo per la foga con cui ci ho scarabocchiato sopra le prime parole che mi sono venute in mente: GUARDATEMI TUTTI, STRONZI.

Non sapevo come o perché, ma un giorno gli altri mi avrebbero ammirata.

Sguardi riverenti tutti per me.

Sarebbe stato l’unico propulsore della mia vita.

~

Le prime cose che ho notato sono stati gli occhiali da sole, i grandi orecchini a cerchio, i tacchi alti. Lei spiccava in mezzo alle altre donne, si muoveva con un’assertività che un po’ mi intimoriva. Non mi aspettavo che, col suo calice di prosecco in mano, venisse a sedersi proprio vicino a me. Dopo essersi accomodata mi ha guardato da sopra gli occhiali: «Potevo, vero?».

Ho annuito piano, poi lei mi ha teso la mano.

«Piacere, Marianna».

Era assertiva pure la stretta.

«Riccardo».

Il tramonto aveva tinto di rosa il profilo del Duomo. Non ero mai stato su quelle terrazze che davano sulla piazza più famosa di Milano, ma per quell’apericena l’azienda aveva deciso di fare le cose in grande. Una vista impagabile, in effetti.

Ho provato a intavolare una conversazione con Marianna; ho scoperto con una punta di stupore che, anche se viveva da anni a Milano, era cresciuta a N., non molto distante da E., dove io abitavo ancora.

«Beh, da N. a Milano è un bel salto, no?».

«Direi. Me ne accorgo le volte che torno e vedo che lì rimane tutto uguale, anche dopo mesi. O anni».

Prima di continuare ha tirato un sospiro e bevuto un altro sorso di vino.

«E che facce fanno tutti, quando scoprono che ormai vivo qui e lavoro nella finanza…».

L’ha detto piano, guardando dritto davanti a sé, come a parlare non più con me, ma con un interlocutore invisibile.

«Che facce fanno?».

«Mi guardano come ho sempre voluto che mi guardassero, quegli stronzi». Ha fatto una pausa, poi di getto si è lanciata in una storia strana, sempre senza guardarmi in faccia. Una storia confusa, di vecchie che le dicono che parla da terrona, di bambine che la prendono per il culo per i peli sulle braccia e sulle gambe, di compagni di classe che la usano solo per copiare i compiti.

Non la seguivo del tutto, ma forse non importava.

Io a E. ci sto bene, ci starò bene sempre. Mi piace girare per quelle strade dove mi conoscono tutti, uscire coi miei amici d’infanzia – le stesse facce con cui giocare a biliardo o alla PlayStation, certezza granitica ogni weekend, quando per due giorni mi lascio alle spalle questo tritacarne di città, il suo traffico rabbioso. Io a E. ci sto bene e non mi era mai passato per la mente che un posto simile per qualcuno potesse trasformarsi in una prigione.

«…poi mia madre mi ha fatto notare che quasi mi vergognavo quando parlavo coi miei compagni, lì si è spaccato qualcosa. GUARDATEMI TUTTI, STRONZI. L’ho scritto su un foglietto con rabbia, arrivando a bucarlo. Solo questo pensavo: un giorno sarete voi a guardare me e rosicare».

Si è tolta gli occhiali – ormai il sole era tramontato, non servivano più. Aveva le sopracciglia probabilmente assottigliate da una pinzetta, gli occhi grandi, con un luccichio che faticavo a identificare. Forse era la mia immaginazione, forse era un velo di lacrime. Mezz’ora prima sarei stato sicuro che no, a una così non poteva scappare da piangere davanti a un estraneo a un apericena aziendale. Adesso la guardavo e non lo sapevo più.

«E ora che rosicano?».

Mi sono morso un labbro subito dopo aver fatto quella domanda, quasi da psicologo, o da giornalista incalzante. Marianna ha socchiuso gli occhi, sembrava soppesarla con attenzione prima di rispondere, a bassa voce.

«Ma sì, te lo dico, tanto…».

Tanto ho pure bevuto un po’, tanto a te chi ti rivede. Glielo si leggeva in faccia.

«In realtà pensavo meglio. A vedere le loro facce, intendo. Da quando ho diciott’anni farli rosicare è tutto quello per cui vivo, ma a dire il vero… io volevo che mi guardassero e alla fine mi sa che continuano a non guardarmi. Anche se ora mi invidiano, e parecchio, questo sì».

La mente mi è corsa al foglietto di cui mi aveva parlato poco prima, bucato dalla furia con cui ci aveva scritto sopra. Mi è quasi venuto da chiederle se lo aveva buttato con stizza subito dopo, o se magari lo aveva tenuto. Ora come ora mi avrebbe pure risposto. Conoscevo Marianna da poco, pochissimo, eppure mi pareva di vederlo, quel foglio bucato, quel GUARDATEMI. Un desi derio, un ordine. Forse una preghiera.

«Mancava una parola…».

Non mi sono accorto subito di avere parlato a voce alta.

«Eh?».

«Quando hai scritto GUARDATEMI TUTTI, STRONZI su quel foglio. Mancava una parola».

«E che parola?».

«DAVVERO. Doveva essere: GUARDATEMI TUTTI DAVVERO, STRONZI».

Marianna ha posato il calice di prosecco mentre, senza far uscire un suono, ha preso a muovere le labbra più volte, come a ripetere quell’avverbio che cambiava tutto. Le è scappato un sorriso con un che di compiaciuto. Ha tirato fuori il portafogli dalla borsa, ha cercato qualcosa e me lo ha allungato.

Stropicciato, bucherellato, ecco il famoso foglietto con quel GUARDATEMI TUTTI, STRONZI. L’ho steso bene tra le mani. C’era una dolcezza inaspettata nelle curve disegnate dalla G, dalla U, dalla A, dalla R, dalla D, dalla S e dalla O. Marianna si è lasciata andare a un sorriso più ampio: «Sei la prima persona che lo vede».

«Onorato, allora».

Si è mordicchiata un labbro: «Quindi che faccio, aggiungo quel DAVVERO?».

Ho riguardato il foglio e gliel’ho restituito, facendo piano no con la testa.

«Possiamo fare solo una cosa» ho detto mentre frugavo in una tasca.

GUARDATEMI TUTTI, STRONZI. Un desiderio, un ordine. Forse una preghiera.

O una condanna.

L’ho guardata annuire sicura e poggiarmi una mano sulla spalla prima di far scattare l’accendino.