Francesco Spiedo

Che fatica

Mio padre, quando aveva l’età che ho io, si era messo sul notturno Napoli-Milano perché se lavorava in trasferta lo pagavano di più. E i soldi a casa non bastavano: per mangiare mia madre doveva depredare il frigorifero dei nonni, infilarsi le polpette nelle guance come uno scoiattolo. La fatica è fatica diceva mio padre prima di indossare un maglione sopra l’altro perché alle tre del mattino di un qualsiasi lunedì di dicembre faceva freddo pure a Napoli e poi c’era un viaggio da affrontare prima di iniziare a lavorare veramente. La fatica cominciava prima della fatica, ma non ho mai sentito un lamento quando si alzava dal letto all’ora in cui le prostitute agganciavano il primo cliente e il metronotte cominciava la ronda fuori ai negozi del corso.

Da dove vengo io non esiste il lavoro, soltanto la fatica. La mattina scendi a faticare, quell’attività che richiede tutto te stesso e lascia poco tempo per altro. In quel tempo rimanente sei così stanco che vorresti solo riposare perché la carne fa carne, il vino fa sangue e la fatica fa buttare il sangue. E invece ti restano da vivere tutte le altre cose della vita, come un figlio di due anni che vorrebbe tutta l’attenzione del mondo.

Com’è che non trovi una fatica?, mi ha detto un giorno ed è successo che non gli ho parlato per una settimana. Cosa avrei dovuto rispondergli?, che è colpa di quelli come lui, a sedici anni già a lavoro, con la pensione garantita, il posto fisso in banca, alle poste, nella scuola, a fare gli assessori comunali per trent’anni, che per partecipare a un concorso bastava tenere in tasca la terza media. Oggi ti chiedono una laurea, due master e dieci anni di esperienza pure per fare l’operaio e se vuoi fare le consegne al bar ti devi comprare il motorino, metterci la benzina e stare attento a non finire sotto a una macchina che poi il cazzo è sempre solo tuo.

Com’è che non la smetti di fumare?, gli ho detto un giorno ed è successo che non mi ha parlato per una settimana. Cosa avrebbe dovuto rispondermi?, che se lui fuma come il motore di un pandino è perché a sedici anni scendeva a faticare, passava le ore al freddo aspettando l’autobus e la sigaretta serviva per restare sveglio, la scusa per una pausa, l’accompagnamento ideale al terzo caffè della mattina. Dopo quarant’anni cosa vuoi farci se fumare è respirare, se accendi una sigaretta e dimentichi di averne già un’altra che brucia nel posacenere, se la stanza è opaca e ingiallita come i polpastrelli e i peli della barba.

Mio padre è appena andato in pensione, ha firmato le carte lo stesso giorno in cui, in un’aula magna di Milano, mi sono laureato per la seconda volta. Per tornare a casa ho preso il notturno verso Napoli, anche se non si chiamano più notturni e le celle sono più strette, i materassi più sottili e profumano di disinfettante. All’età in cui mio padre andava a faticare per mantenermi, conto gli spiccioli per un pacchetto di biscotti che il distributore della Stazione Centrale vuole vendermi a 2 euro. Quando passo le ore al computer a compilare dati che non servono a nessuno, a scrivere pubblicità di dubbio gusto per prodotti inutili, sento il peso dei suoi occhi astenopici domandarsi che fine ha fatto la fatica. Dove sono i calli nelle mani, i segni sulla schiena, i calzini al ginocchio per evitare che le tute taglino la pelle e il vento si infili dentro le ossa fino a ghiacciarle. La fatica è lavoro con l’aggravante del supplizio, dello sforzo fisico e mentale che brucia i legamenti del ginocchio, infiamma le vertebre e consuma i tendini delle spalle. Da dove vengo io se non tieni una fatica non sei nessuno.

Io e mio padre siamo a mezza stanza di distanza, entrambi affondiamo nei cuscini e sospiriamo. Mio padre fuma la dodicesima sigaretta, anche se non potrebbe, anche se è andato in pensione ed è il momento di iniziare la sua vita. Continua a svegliarsi all’alba, si agita per casa dopo aver fatto la doccia e asciuga i capelli quando la nettezza urbana conclude il suo giro svuotando anche l’ultimo bidone del vetro. Però resta a casa e passa di stanza in stanza. Sento i suoi occhi che mi bucano la schiena mentre resto in pigiama per leggere ancora un po’ oppure invio l’ennesima patetica candidatura, se infilo le cuffie e alleno il mio inglese, se ripeto qualche parola di francese, se seguo un altro corso d’aggiornamento. Mio padre fuma sul divano. Io non esco dai metri quadri della mia stanza.

Non si va avanti se non ci si prefigge uno scopo, oppure quando lo scopo è posto all’infinito,  poiché saremo in ogni momento alla stessa distanza incolmabile dalla meta, nonostante i chilometri percorsi, qualsiasi sia la strada già compiuta. Camminare costantemente in avanti e senza obiettivo è uguale all’agitarsi sul posto, è identico al non muoversi mai. Un frenetico spreco di energie. Restare a letto, gli occhi puntati contro il soffitto, non mi sembra tanto diverso da faticare una vita intera per poi riposare davanti alla televisione. Medito nell’illusione che il mio obiettivo sia lì, se soltanto mi alzassi e alzassi un braccio potrei raggiungerlo con un salto.  Che fatica è la vita senza una fatica. Scusami papà, ma ci è convenuto?